Un ricordo di Jimmy Coob

Ero un ragazzino, pieni anni ’80, Jaco era uscito dai Weather e Jarrett aveva pubblicato lo “Standard n.1” . Avevo deciso di vedermi Umbria Jazz e così, macchinata con amici patentati e via, fino a Perugia. All’epoca le cose non si vedevano su YouTube, anzi, neanche immaginavamo niente del genere. C’erano le cabine della Sip, coi telefoni a gettoni, che usavi una volta a settimana per chiamare casa, tanto per far sapere che eri vivo. Fine della storia.
Il festival era un pò disorganizzato, non ricordo accoglienza, un ufficio turistico di riferimento, possibilità di prenotare… boh, si andava li e poi ci si arrangiava, ma il programma era strepitoso. Era l’epoca in cui nei Festival Jazz si suonava del Jazz, e dove potevi trovare pezzi di storia della musica in giro a passeggio per il corso Vannucci.
E lì, praticamente per caso, mi iscrissi alle Clinics. Ricordo Steve Grossman, Harold Mabern, un emergentissimo Kevin Eubanks e tal Jimmy Cobb. Ecco, li per li sembrava boh, un vecchio batterista della vecchissima guardia capace di andar via dritto e basta. Troppo poco per noi che volevamo essere tutti Steve Gadd, Tony Williams, Peter Erskine e Jack DeJohnette. Aveva suonato con Miles Davis… mah. Ecco, io non capivo, noi non capivamo. Forse l’atmosfera di quegli anni era troppo fervida, vivace, per star li a soffermarsi sui miti del passato. C’era tanta bella musica presente. I Weather Report avevano ancora da dire, stavano uscendo gli Steps Ahead, Jarrett stava cambiando il modo di suonare in trio, i VSOP andavano in giro coi due Marsalis e Miles Davis, tanto per cambiare, stava scrivendo altra storia. Fregava a noi di Jimmy Cobb…
Ricordo anche che un giorno gli mostrai un suo solo trascritto su un metodo, “different drummers”. Sapevo già leggere bene, e glielo lessi. Lui si perse subito e poi bofonchiò qualcosa. Insomma, forse neppure sapeva leggere. Per cui passavamo il tempo a fargli domande su cose che non c’entravano nulla, su altri batteristi, su cosa pensava di questo o di quello, senza mai fare una sola domanda su avvenimenti storici, ma storici sul serio, che lui aveva vissuto in prima persona.
Le clinics andarono avanti un pò cosi e un pò cosà, fino a quando ci fu il concerto degli insegnanti, e Cobb si mise alla batteria. Ecco, lì credo di aver capito a cosa serve un batterista.
Jimmy Cobb era un treno inesorabile, e aveva un suono che non era bello o brutto o suo o di un altro. No, era il suono del Jazz “e basta”, quello che se anche lo registri con un microfono da 10 dollari viene bene.
C’era un ritmo pazzesco, e io capii che tutti i metodi di batteria del mondo, tutte le trascrizioni di qualsiasi batterista, tutto il leggere e il rileggere e qualsiasi preparazione possibile non volevano dire niente se, a monte, non c’era quella cosa lì che lui aveva, e noi tutti no.
Io non ho mai veramente capito cosa fosse “quella cosa li”, perchè non sto parlando banalmente dello swing. Per andarci vicino, direi che il Jazz, come qualsiasi linguaggio, ha bisogno di essere pronunciato bene, e un madrelingua lo farà meglio, perfino a prescindere dalla grammatica e dalle regole. Perchè a Cobb la lettura era ostile, la tecnica così cosà e spiegava poco o nulla. Ma la band, con lui lì dietro, suonava da paura. Penso sia stato li che ho deciso che da grande avrei cercato principalmente di “far suonare” la band. Boh, chissà oggi cosa mi direbbe…
Riposi in pace sig. Cobb. E grazie per la lezione.
 
Gio Rossi

 

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